Trovare una traccia nelle pagine bianche che la vita permette ancora di sfogliare, vuol dire resistere, e alla vita restare attaccati. Vuol dire opporsi a quel lento, inesorabile percorso della memoria che porta a sfumare il ricordo fisico della persona.
Una traccia, anche per trovare le parole che non si dicono: “Date parole al dolore; il dolore che non parla bisbiglia al cuore troppo gonfio e gli ordina di spezzarsi”, suggeriva il saggio Shakespeare, nel poema dell’orrore (Macbeth, Atto IV scena III).
E io ce l’ho una traccia. Per vivere ancora con chi non c’è più. Con chi ha deciso di non esserci più. Gli antichi greci chiamavano kairòs l’attimo in cui si fa la scelta. Dopo quest’attimo nulla sarà più lo stesso.
Ma ecco: la traccia. È quel prezioso segno, il nero che si dipana su un foglio bianco. Resiste, lui, agli insulti del tempo. Permette di venire incontro alla invocazione del poeta “Non recidere, forbice, quel volto,/ solo nella memoria che si sfolla…”.
Non fare del suo sorriso illuminante, della sua intelligenza, del suo impegno sociale, un ricordo tra tanti.
Il tracciato grafico lo può fare. Permettendo anche di seguire il peso della vita che diventava sempre più duro: obbligando il tracciato a rallentare, a stringersi, per cercare di difendersi.
Anna Rita Guaitoli