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I “Fauve”, o l’arte di essere … adolescenti oggi

Quando scoppia un “fenomeno”, prima di avanzare giudizi critici, occorre capire il perché.

Questo gruppo di cantanti francesi ha spopolato sul web già prima del primo disco. Sono ragazzi. Sotto i 30 anni. Professionisti appartenenti a quella classe che una volta si diceva “media”. Non vanno in televisione. Non mostrano il volto.

Sulla loro musica, non so dare valutazione. So però che usano la musica, ma soprattutto usano le parole, per soddisfare l’esigenza di dire. E dicono il malessere che sta allargandosi: un malessere che si intesse di incertezza, ma anche di noia; di mancanza di sogni ma anche di vaghi stati d’animo; di grida di rabbia, ma non di sentimenti di rivolta.

Nella banalità del loro reale c’è la banalità della vita che rende difficile il progetto, e più facile il naufragare nella depressione. “Nous sommes des transparents, des anonymes, des gens gris” (“siamo persone trasparenti, anonime, grigie”).

Quei testi offrono la stessa comunicazione dei tracciati grafici che sempre più spesso incontro. Galleggianti nello spazio, senza struttura formale, sono grafismi che indicano, nel tratto che si spezza, nelle proporzioni che non tengono, la pateticità di un narcisismo che non motiva, non esige. Un narcisismo che tenta di contenere solo la paura dalle due facce: la necessità di esserci; l’angoscia di fallire.

Sono adolescenti – o post-adolescenti – che non hanno possibilità di impegnarsi oltre: non riescono a donarsi realmente agli altri, così come non riescono a dare l’addio all’adolescenza. Dicono i Fauve, “Siamo egoisti, egocentrici, conformisti”.

Nelle canzoni, come nelle scritture, appare, invero, una qualche voglia di resistere. Magari, cercando di adeguarsi a un modello che li rassicuri, e li sostenga. Può essere lo script nelle grafie. Può essere, nel disco inciso, Vieux frères, quella specie di doppio immaginario cui ci si rivolge a cercare solidarietà, consolazione: i “vecchi fratelli”, appunto.

In altri tempi, un poeta quale Baudelaire descriveva la malattia dell’anima, la Noia, che “Con l’occhio di lacrime appannato/ sogna di patiboli, mentre fuma il narghilè”. E, chiedeva: “Conosci, tu, lettore, quel mostro sensibile, -lettore ipocrita, -mio simile, -mio fratello?”.

Ogni tempo, ha il suo poeta. Che cerca le parole per tradurre le emozioni. Che cerca di condividerle con un “fratello”. Quello che gli somiglia.

La curiosità corre sul… foglietto

Appena apparsi sui media i foglietti con le scritture di Renzi e Di Maio si sono rincorse le richieste di analisi grafologiche.

Un bene, certo. Intanto, perché la curiosità vuole il suo spazio. Poi, perché, dietro alla curiosità, si apre una vasta area in cui emerge, nonostante troppi scetticismi ufficiali, la consapevolezza che il tracciato grafico, qualcosa, dovrà pur dire.

Per i grafologi, però, si rinnovano due problemi: cosa-quanto davvero si può dire. Come si deve dire.

Il come, appartiene ad una problematica più generale: la considerazione, che deve essere attenta e rispettosa, del destinatario dell’analisi. E’ difficoltà che, nella didattica, si cerca di affrontare dalle prime lezioni: perché ogni essere umano ha una sua soglia di sensibilità che non deve essere offesa. E, chissà, quella persona, ha una parte di sé che, seppure conosciuta, non vuole sia rivelata. O forse non la conosce: ma non volendo conoscerla, ha organizzato delle belle difese per occultarla.

Il cosa e il quanto si fa problema pressante soprattutto per le analisi dei Noti, ancor più se contemporanei. Si sono occupati del pericolo insito in tali analisi, tutti i maestri grafologi. Sintetizzo con uno degli ultimi grandi, Gille Maisani: il rischio in cui più si può incorrere è quello della “suggestione”, che porta a vedere ciò che si sa, o ciò che si vuole vedere, spesso anche in rapporto alla propria posizione ideologica.

E allora, guardiamo pure queste scritture postadolescenziali: magari notiamo la diversa energia del tratto; le troppe sopraelevate e gli angoli di uno; e le troppe lettere infantili e cascanti dell’altro. Grafologi esperti sapranno sicuramente trovare, dalle varie caratteristiche grafiche, i tratti dominanti le singole personalità.

Ma non cerchiamo in quei foglietti vergati in fretta, di cui non vediamo tutte le qualità del tratto, troppe verità.

Consideriamoli quelli che sono: tracce di sé, su cui curiosare, e, perché no, intessere un sano, socializzato, pettegolezzo.

S.O.S. virgola

La stampa ha appena lanciato l’allarme per la virgola. Nei concitati messaggi pubblicitari, messaggini, ‘twitterate’, in verità, non è solo la virgola la vittima disegnata. Tutta la punteggiatura sta morendo.

Ed ecco che un opportuno commento di Stefano Bartezzaghi (La Repubblica, 9 febbraio) porta alla ribalta la mancata espressività che quella assenza comporta.

In senso più generale, in effetti, è l’emozione che viene meno. O meglio: l’emozione, quella che si accompagna a veloci stati di animo, per esprimersi ha, oggi, la “faccetta”, anche tante “faccette”.

Ma solo una virgola, o un punto e virgola, o i due punti, possono dare la pausa che fa capire come, e quanto, l’emozione sia elaborata. Così in uno spartito musicale, è la pausa dalla varia durata (o nel tracciato grafico, il bianco tra parole), a segnare il tempo del pensiero che, accompagnando “il palpito del cuore”, chiede una sospensione, un respiro da trattenere, un attimo di silenzio. Per fare diventare quell’emozione un sentimento.

La narrazione di sé. Nel silenzio.

Analizzando le scritture di oggi si avverte uno spaesamento che fa tremare il cuore.

Chiusi nell’armatura di un fragile script e/o galleggianti nello spazio, troppi dei nostri giovani dimostrano cosa significhi non avere punti fermi. Liquidi, allora, come nella felice metafora del sociologo Bauman? Probabile. Certo che frastornati da assordanti quanto confusi rumori, padroni di poche parole, utilizzando faccette per esprimere vaghi stati d’animo, si rivelano, troppo spesso, incapaci di dare nome a ciò che sentono, e vivono.

Eppure, anche senza saperlo, scrivendo si narrano. La parola scritta sulla carta, in quanto “segno” che rimane, permette di lasciare una traccia silenziosa – direbbe Duccio Demetrio che al silenzio e all’autobiografia tanta intelligenza ha dedicato – capace di raccontare una storia. E nemmeno la corazza dello script riuscirà a celare le emozioni che non si sanno elaborare: basterà il gesto che non tiene, il tracciato che non riesce a trovare direzione nello spazio, a narrare con immediatezza paure, sbandamento, difficoltà di crescere.

Sarà il grafologo a raccogliere questa silenziosa narrazione di sé. Intercettando le domande senza parole, può cercare di dare loro un orizzonte di senso. Accogliendo la loro inquietudine, darà vita a un inconsueto dialogo che può aiutare chi cresce a riconoscere e a nominare ciò che confusamente avverte.

Riflessione #2

Già: il rischio attuale è “di perdere il contatto con la fisicità delle cose…”.

Sottolineavo questo passo del calligrafo Barcellona, riflettendo nel mio “cantuccio”.

In effetti, “la anonimità dei caratteri dei programmi di scrittura, la perfetta freddezza delle stampanti, non potranno mai restituire i tremori e le esitazioni della penna sulla carta, il calore della mano che tracciava le parole…”.

Ad esprimere quello che è il senso della materialità della scrittura ancora una volta non è un grafologo: è un giornalista quale Vittorio Zucconi.

Che le emozioni vengano trasportate dall’inchiostro steso dalla mano sulla carta è, del resto, la certezza di una cultura orientale che della scrittura ha fatto arte e modalità di meditazione diventando, nella filosofia Zen, un vero percorso di crescita interiore.

In effetti, quando “… si comprende la tecnica/dello spostamento del pennello,/questo comincia a muoversi/naturalmente, liberamente/e tranquillamente,/ correndo dietro alle nostre intenzioni…”: così dal brano di un classico riportato nel suo recente libro da Norio Nagayama, noto maestro dell’arte della scrittura giapponese. Liberati dallo sforzo dell’apprendimento si esprimeranno allora, nella materia dell’inchiostro, nel controllo della forma, nel ritmo del tracciato, le nostre emozioni profonde.

Quelle che ci fanno persona unica, “individuo”, appunto. Perché, “le parole che pronunciamo sono la voce del nostro spirito. I caratteri che scriviamo ne sono l’immagine”. L’ulteriore citazione è tratta da un calligrafo cinese vissuto a cavallo del secolo primo. Ma non c’è un “tempo” per ciò che vive nell’uomo. E la citazione ultima, tanto lontana nel tempo e nello spazio, si è attualizzata, domenica 29 dicembre, nell’affermazione perentoria, impavida, del famoso italianista Alberto Asor Rosa: io sono la mia calligrafia.

L’abbandono della penna

Avanzano. Le scuole che dicono NO alla penna sono riconosciute in 45 Stati americani.

Si intensificano le lotte tra interventisti (per l’abolizione della suddetta penna: “Il mondo va avanti… tutti comunicano con la tastiera: perché le scuole dovrebbero perdere tempo?”) e conservatori (per continuare ad usare penna e carta nell’apprendimento di base: “Perché aiuta l’apprendimento, favorisce la memoria, stimola la fantasia”… ): così, in parte, nel dibattitto infuocato apparso sul New York Times di cui dà notizia il “Venerdì” di Repubblica (1 novembre 2013).

Per fortuna, il noto pragmatismo americano (e i soldi che le università lì ancora hanno per le ricerche) fa sì che si continui a indagare sulle possibili conseguenze di una abolizione della scrittura corsiva. Per la verità, non c’è paese industrialmente sviluppato (dalla Norvegia alla Francia) che non si interroghi (con ricerche) su cosa possa significare l’abbandono della penna.

Intanto, quasi come paradosso, si accrescono gli studiosi di calligrafia: in Inghilterra, soprattutto, c’è un fiorire di inviti a conservare quella “arte di scrivere una lettera a mano” (The missing ink: the lost Art of Handwriterting …, P. Hensher). In questo l’Italia non è da meno, con l’uscita di molti testi di calligrafia e una Associazione Calligrafica Italiana quanto mai attiva.

Luca Barcellona, uno dei giovani calligrafi italiani, nel suo intervento al Festival della mente di Sarzana ha detto: “Non possiamo abolire o essere contro il concetto di comunicare con la tecnologia, il problema però è se vogliamo essere completamente sostituiti dalla tecnologia … Il rischio non è di perdere uno dei modi di comunicare, ma di perdere il contatto con la fisicità delle cose…”.