So bene di averne già parlato. Ma io mi entusiasmo ogni volta qualcuno si accorge, e ne scrive, di quanto la ‘materialità’ della scrittura a mano sia veicolo di emozioni.
Recentemente (Espresso 10 novembre 2019), in occasione del nuovo libro sul Memoriale di Moro – quello scoperto 12 anni dopo il testo dattiloscritto del 1978 – è stato dato ampio spazio alla nuova edizione critica voluta dagli Archivi di Stato impegnando gli esperti migliori: tra gli altri, gli storici Gotor e Biscione, l’avvocato Flamigni, l’archivista Di Sivo. E la grafologa Padova. Altri grafologi, in verità, si sono interessati alla scrittura di Moro prigioniero. Magari leggendola “abulica, passiva, inerte”; magari, non ritenendola sua.
Basterebbe ricordare che Moro, proprio lui, si rendeva conto della grafia diversa (veloce, personale, illeggibile prima; titubante, infantile, lenta, ora). Ed ecco le sue parole, lucide e graffianti: “Pensa qualcuno che io mi trovi in un comodo e attrezzato ufficio ministeriale o di partito?”.
La grafia esprime ciò che lo statista vive. E, spesso, anche in quel contesto, essa cambia, rispondendo alle emozioni che di volta in volta insorgono. Il Memoriale consente di “entrare nell’interiorità, nello stato d’animo di Moro”.
Perché, appunto, si va a “penetrare nella scrittura di Moro, nella sua materialità“.
Anna Rita Guaitoli