Lui è l’Homunculus. Fece la sua apparizione il primo dicembre del 1937, quando Wilder Penfield, neurologo canadese, pubblicò sulla rivista Brain un articolo. Le neuroscienze attuali hanno approfondito e apportato sviluppi, ma l’immagine, grottesca nell’eccessiva sproporzione, rende bene l’importanza che la manualità e la parola hanno nell’architettura funzionale della corteccia cerebrale. E quindi nello sviluppo – unico – del cervello umano.
Questi parti ingigantite dicono che sono loro ad attivare nel cervello reti più vaste e complesse: perché hanno un maggior numero di recettori (o densità d’innervazione) e quindi più neuroni dedicati al controllo. Ed ecco, allora, che noi possiamo godere della morbidezza di un tessuto, del piacere del gusto, della parola.
Non solo: il maggiore coinvolgimento dei sensi permette al cervello di mettere a punto movimenti delle mani più fini e accurati. Come è necessario nella scrittura a mano.
Infatti: premendo una penna sulla carta vengono attivati molti sensi, si affermava nella ricerca ricordata nel precedente Cantuccio. La studiosa van der Meer precisava che «I movimenti delicati e controllati in modo preciso previsti dalla scrittura a mano contribuiscono all’attivazione di pattern cerebrali legati all’apprendimento; usando una tastiera, al contrario, non abbiamo trovato traccia dell’attivazione di questi schemi».
E io sottolineo ancora: “La scrittura a mano è un’abilità culturale complessa che coinvolge molte aree cerebrali e l’integrazione di abilità motorie e percettive”.
Prendete carta e penna. Il cervello resterà giovane.
Anna Rita Guaitoli