Già: il rischio attuale è “di perdere il contatto con la fisicità delle cose…”.
Sottolineavo questo passo del calligrafo Barcellona, riflettendo nel mio “cantuccio”.
In effetti, “la anonimità dei caratteri dei programmi di scrittura, la perfetta freddezza delle stampanti, non potranno mai restituire i tremori e le esitazioni della penna sulla carta, il calore della mano che tracciava le parole…”.
Ad esprimere quello che è il senso della materialità della scrittura ancora una volta non è un grafologo: è un giornalista quale Vittorio Zucconi.
Che le emozioni vengano trasportate dall’inchiostro steso dalla mano sulla carta è, del resto, la certezza di una cultura orientale che della scrittura ha fatto arte e modalità di meditazione diventando, nella filosofia Zen, un vero percorso di crescita interiore.
In effetti, quando “… si comprende la tecnica/dello spostamento del pennello,/questo comincia a muoversi/naturalmente, liberamente/e tranquillamente,/ correndo dietro alle nostre intenzioni…”: così dal brano di un classico riportato nel suo recente libro da Norio Nagayama, noto maestro dell’arte della scrittura giapponese. Liberati dallo sforzo dell’apprendimento si esprimeranno allora, nella materia dell’inchiostro, nel controllo della forma, nel ritmo del tracciato, le nostre emozioni profonde.
Quelle che ci fanno persona unica, “individuo”, appunto. Perché, “le parole che pronunciamo sono la voce del nostro spirito. I caratteri che scriviamo ne sono l’immagine”. L’ulteriore citazione è tratta da un calligrafo cinese vissuto a cavallo del secolo primo. Ma non c’è un “tempo” per ciò che vive nell’uomo. E la citazione ultima, tanto lontana nel tempo e nello spazio, si è attualizzata, domenica 29 dicembre, nell’affermazione perentoria, impavida, del famoso italianista Alberto Asor Rosa: io sono la mia calligrafia.