La narrazione di sé. Nel silenzio.

Analizzando le scritture di oggi si avverte uno spaesamento che fa tremare il cuore.

Chiusi nell’armatura di un fragile script e/o galleggianti nello spazio, troppi dei nostri giovani dimostrano cosa significhi non avere punti fermi. Liquidi, allora, come nella felice metafora del sociologo Bauman? Probabile. Certo che frastornati da assordanti quanto confusi rumori, padroni di poche parole, utilizzando faccette per esprimere vaghi stati d’animo, si rivelano, troppo spesso, incapaci di dare nome a ciò che sentono, e vivono.

Eppure, anche senza saperlo, scrivendo si narrano. La parola scritta sulla carta, in quanto “segno” che rimane, permette di lasciare una traccia silenziosa – direbbe Duccio Demetrio che al silenzio e all’autobiografia tanta intelligenza ha dedicato – capace di raccontare una storia. E nemmeno la corazza dello script riuscirà a celare le emozioni che non si sanno elaborare: basterà il gesto che non tiene, il tracciato che non riesce a trovare direzione nello spazio, a narrare con immediatezza paure, sbandamento, difficoltà di crescere.

Sarà il grafologo a raccogliere questa silenziosa narrazione di sé. Intercettando le domande senza parole, può cercare di dare loro un orizzonte di senso. Accogliendo la loro inquietudine, darà vita a un inconsueto dialogo che può aiutare chi cresce a riconoscere e a nominare ciò che confusamente avverte.