Il corsivo… una speranza

In fondo, come ci ha insegnato Leopardi, la bellezza della vita è lì: nell’attesa, nella speranza.

E la notizia apparsa i primi di dicembre sui maggiori giornali americani, è davvero di quelle che fanno tirare un sospiro di sollievo e crescere la speranza. Uno dei titoli: “New Jersey legislator introduces bill that would require students to learn cursive”. Dunque: una deputata del New Jersey, Angela McKnight, ha avanzato una proposta di legge per la reintroduzione dell’insegnamento del corsivo.

E così, come è avvenuto in numerosi Stati americani (tra gli altri: California, Texas, Alabama, Louisiana. Mississippi…), il corsivo bandito dal 2010 si riaffaccia sui banchi, prepotentemente dimostrando la sua importanza.

Il NYT ha anche condotto una ricerca attestando come ormai non si sappia tenere una penna in mano; non si sappia leggere un testo che non sia  stampato; non si sappia… firmare.

Intanto, negli Stati Uniti le ricerche sull’utilità del corsivo si intensificano, sempre più dimostrando come solo questa modalità di scrittura riesca a mettere in moto le diverse aree del cervello così contribuendo allo sviluppo delle abilità sia cognitive sia motorie e – contrariamente a quello che si dice in Italia – aiutando anche chi ha difficoltà nell’apprendimento, in particolare chi soffre di dislessia.

Senza parlare – come in questo cantuccio tanto spesso si è fatto – delle emozioni che solo il corsivo sa veicolare.

Allora… buon anno in corsivo.

Anna Rita Guaitoli

La materialità della scrittura

So bene di averne già parlato. Ma io mi entusiasmo ogni volta qualcuno si accorge, e ne scrive, di quanto la ‘materialità’ della scrittura a mano sia veicolo di emozioni.

Recentemente (Espresso 10 novembre 2019), in occasione del nuovo libro sul Memoriale di Moro – quello scoperto 12 anni dopo il testo dattiloscritto del 1978 – è stato dato ampio spazio alla nuova edizione critica voluta dagli Archivi di Stato impegnando gli esperti migliori: tra gli altri, gli storici Gotor e Biscione, l’avvocato Flamigni, l’archivista Di Sivo. E la grafologa Padova. Altri grafologi, in verità, si sono interessati alla scrittura di Moro prigioniero. Magari leggendola “abulica, passiva, inerte”; magari, non ritenendola sua.

Basterebbe ricordare che Moro, proprio lui, si rendeva conto della grafia diversa (veloce, personale, illeggibile prima; titubante, infantile, lenta, ora). Ed ecco le sue parole, lucide e graffianti: “Pensa qualcuno che io mi trovi in un comodo e attrezzato ufficio ministeriale o di partito?”.

La grafia esprime ciò che lo statista vive. E, spesso, anche in quel contesto, essa cambia, rispondendo alle emozioni che di volta in volta insorgono. Il Memoriale consente di “entrare nell’interiorità, nello stato d’animo di Moro”.

Perché, appunto, si va a “penetrare nella scrittura di Moro, nella sua materialità“.

Anna Rita Guaitoli

Già… le immagini

Ovunque. Di qualsiasi cosa. Di ogni parte del corpo. Di ogni momento della giornata: dalla fetta di torta al morto per strada…

Ci seppelliscono, ci soffocano.

Pensate sia una mia opinione? Anche, certo. Ma sentite quello che dice il fotografo americano Paul Melcher esperto dell’industria fotografica: “Le fotografie sono diventate così comuni, indifferenziate… da aver perduto senso. Non comunicano più nulla”. E parla di… putrefazione.

Una parola forte. Che indica l’eccesso che uccide il piacere, la vita.

Il fenomeno, che non riguarda solo la photo generation, ci ha trovato impreparati. Anche se c’è chi, da tempo, aveva provato a ‘quantificare’ l’assurdo: qualche anno faErik Kessels designer, artista, critico olandese, ha stampato le foto di 24 ore trovate sul web e ha creato nelle stanzedi una galleria d’arte… gigantesche montagne.

20190923I ‘momenti’ della nostra vita rimangono sepolti in quelle montagne. E il desiderio di  trattenere ciò che inevitabilmente sfugge, di salvare un frammento della vita dall’inesorabile azione dissolvente del tempo, fallisce.

Sarà pur vero che per decifrare un’immagine il cervello impiega un millesimo del tempo che impiega per leggere una parola scritta: lei, però, la parola scritta, resta.

Anna Rita Guaitoli

Un museo per il Segno

Un museo, addirittura, per noi. O meglio: per chi sa l’importanza del segno che si fa simbolo per trasportare il mondo complesso dell’uomo.

Il progetto di questo museo alla periferia di Torino – già ne parlavo nel n. 17 per quanto riguarda la storia dell’Aurora, la mitica penna che deve il suo nome a D’Annunzio – è un vero omaggio alla cultura della scrittura. Nei suoi 2.500 metri quadri di esposizione si seguono i più vari aspetti del segno: c’è la sua storia (pittogrammi, stili, calami, papiro…); c’è il suo presente (l’Ipad); ci sono gli oggetti, vere conquiste della tecnica: le penne Aurora, ovviamente (ma l’Aurora vive ancora, anzi è oggetto di culto); la mitica macchina da scrivere Remington (questa, oramai, solo mitica)…

Certo, per me, dire ‘segno’ vuol dire, soprattutto, scrittura. Nel mondo del virtuale, della rete, si pensa sempre di meno a quanto la scrittura sia legata alla grande Storia dell’uomo: anzi, nella Storia si è entrati proprio nel momento in cui la scrittura è stata inventata.

Io rubo ogni occasione per tornare a riflettere sull’importanza di quei venti caratteruzzi che con i vari accozzamenti sopra una carta permettono di comunicare i suoi più reconditi pensieri a qualsivoglia altra persona benché distante per lunghissimo intervallo di luogo e di tempo; permettono di parlare a quelli che non sono ancora nati né saranno se non di qua a mille e diecimila anni. Le parole in corsivo blu sono state scritte nel 1632, da Galilei. Cosa dire di più.

Chi ha ideato questo museo, ha fatto. Ha organizzato percorsi che permettono di passare dalla storia al presente; ha ideato laboratori per “Fare segno”, e così ‘usare’ le mani, e ritrovare la materialità delle penne, dei colori, della bella scrittura: la ‘calligrafia’, come si diceva una volta. E si rinnova la nostalgia di bello, oggi, in epoca di ben poco ‘belle’ scritture.

Anna Rita Guaitoli

Scomodo

Cosa c’è di più scomodo che fondare, oggi, un giornale di carta. Da leggere, con calma. Su cui riflettere.

Cosa c’è di più scomodo pensare a dei ragazzi che si riuniscono e parlano di cosa scrivere nella rivista, di quali problemi affrontare, di come sovvenzionarsi. Senza pubblicità. Per creare un prodotto ‘bello': con “copertine d’autore, ben illustrato e con carta eccellente, bello anche da tenere in mano“.

No: non sto scherzando; né sto sognando. Tutto questo esiste dal 2016, a Roma. E’ da tempo che covavo questa notizia. Ora che sono passati tre anni e che quei ragazzi sono diventati 400, e le copie distribuite (gratis, in punti raccolta; 4 euro al mese per chi crede nel progetto) sono state 7.500 al mese: beh, fatemi dire la mia felicità.

Nel mio cantuccio, di carta si è sempre parlato. Della tartaruga metafora della lentezza necessaria alla riflessione, pure. Dell’importanza del rapporto “tattile” anche. Ma questi sono giovani, i ‘nostri’ giovani. In una Roma abbrutita tanto da sembrare senza speranza; in una società che esalta violenza e ignoranza: loro ci sono.

E dicono: “Non si tratta di fascinazioni nostalgiche, ma di una scelta ponderata… La carta, così vissuta, getta un ponte tra la memoria visiva e quella tattile, riducendo al minimo le distrazioni che possano frapporsi tra il lettore e il testo che questi si trova davanti”. Perché: “L’informazione sta tutta nell’approfondimento delle questioni, nel donare al lettore le chiavi per capire la realtà che ci circonda. Questa informazione lenta, critica e indipendente è possibile solo attraverso un giornale cartaceo…”.

Grazie.

scomodoAnna Rita Guaitoli

Intorno ai social

Ritorno sull’argomento perché notizie si aggiungono a notizie.

Vorrei subito ricordare l’indagine condotta dall’associazione “Di.Te” (Associazione Nazionale Dipendenze Tecnologiche) e riferita da Giuseppe Lavenia (Presidente della stessa) sul fatto che “clic app sms allontanano dalle emozioni“. Non si sta scherzando: su 500 persone tra i 15 e i 68 anni che pure affermano quanto i social facilitino loro le relazioni, ben il 65% dichiara poi di avere difficoltà quando… si trova faccia a faccia. Il 60% dichiara anche che non ha stretto nuove amicizie negli ultimi tre anni.

Da quanta povertà, di parole, di odori, di sorrisi (quelli veri, non quelli stampati sulle faccette-emoticon) sono contrassegnate queste pseudorelazioni.

A ricordarcelo, è una pagina di Elasti, alias Claudia de Lillo, che da tanti anni tiene una rubrica su “D” di Repubblica. Pensate un po’: si è commossa per aver ricevuto una lettera, “di quelle vere, con la busta, il francobollo timbrato, l’indirizzo…”, e “con le maiuscole, la punteggiatura, gli a capo…”.

E ha risposto. E ha ritrovato il “gusto nella scelta delle parole, un brivido nel non poterle cancellare…, un piacere nella visione dell’inchiostro che si posa sulla pagina”.

Ha ritrovato “la dimensione figurativa della parola”.

Io posso solo aggiungere: quella dimensione (colore, peso, tremolii, uso dello spazio…) è la sola che nella sua materialità ci mette davvero in comunicazione con l’altro, trasmettendo le nostre emozioni.

Anna Rita Guaitoli